lunedì, novembre 11, 2013

David Grossman, Israele e i profondi dolori

Mercoledì scorso siamo andati alla presentazione dell'ultimo libro di David Grossman: Caduto fuori dal tempo. Libro in cui  lo scrittore affronta il tema della morte in guerra del figlio. Non avendo letto nessuno dei suoi libri sono arrivato lì con un entusiasmo moderato. Che non è certo cresciuto durante la lettura in tedesco di alcune pagine della traduzione del suo libro. Ma quando poi lo scrittore ha cominciato a rispondere alle domande della moderatrice il mio coinvolgimento è andato crescendo. Fino ad arrivare a un punto in cui le parole di Grossman mi colpivano direttamente al cuore. Percuotendo le mie corde più intime.
Vabbè, per non scadere nel melodrammatico riporto solo qualche appunto preso durante le presentazione. Considerando che quello che leggerete è solo una mia interpretazione estemporanea delle risposte che Grossman dava alle domande della moderatrice.

Israele è un paese in cui persone normali cercano di vivere normalmente in circostanze totalmente anormali. Da generazione in generazione i padri accompagnano i figli ad arruolarsi. Come fece mio padre con me per la guerra dello Yom Kippur. E come ho fatto io con mio figlio per la guerra israelo-libanese del 2006. È per questo che penso la guerra sia "a game for boys". Il Signore fu furbo nel chiedere ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco. Abramo eseguì immediatamente senza porre domande. Ma se Sara fosse stata al suo posto il Signore avrebbe ricevuto ben altra risposta.

Il futuro è molto incerto in Israele. È per questo che il paese è pervaso da intensità in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Un'intensità che sopraffà i visitatori. Quando manca persino la certezza dell'esistenza nell'immediato futuro - sia a livello individuale, sia a livello di nazione - tutto viene vissuto più intensamente. Emblematica la risposta di una sposina durante l'intervista a una rete americana. Alla domanda - perché vorrebbe avere tre figli? - rispose: così se uno muore in guerra o in un attentato ce ne rimangono altri due. Nessuno in Israele può essere sicuro di vedere la discendenza di figli e nipoti.

Nel mio romanzo ho deciso di usare l'ingenuità perché di fronte alle atrocità della guerra è proprio lo sguardo ingenuo che ci può ricondurre alle cose semplici che in quei frangenti sono davvero le più importanti.

Per lui la scrittura di questo libro sulla perdita di un figlio - l'evento che infrange tutte le leggi di natura - è stato un processo lungo e sofferto. Alla fine ha deciso che avrebbe avuto bisogno di un linguaggio nuovo. E ha usato anche un linguaggio teatrale e la poesia. Perché la poesia è la cosa più vicina al silenzio. E in situazioni di profonda sofferenza il silenzio è imprescindibile. Quando il figlio è morto molti scrittori gli hanno inviato messaggi di condoglianze. E una cosa comune era la frase: non abbiamo parole. E in quei casi è giusto. Perché non ci sono parole che tu voglia sentire. Non vuoi stare ad ascoltare cliché. Non li puoi sopportare.

Il camminare nel suo libro è una protesta contro lo stallo in cui una grossa perdita ci sprofonda.
L'arte è l'unico mezzo che ci permette di sfiorare la barriera che divide la vita dalla morte.

A proposito, ieri ho comprato il libro. Penso che lo leggerò a breve.

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